Legge Zan e hate speech, il lato oscuro del linguaggio

Il murales “Silenced”, dedicato alle donne vittime di violenze, realizzato dagli artisti Zabou e Alaniz a Berlino.

 

C’è differenza tra libertà d’espressione e hate speech. E questo spiega tutto il dibattito sulla legge Zan contro l’omofobia ora in discussione al Senato. La chiave sta in un paio di libri, meno chiassosi di una rissa in tv ma più avvincenti se poco poco ci si appassiona al tema. Il primo è uscito nei primi mesi del 2021 e si intitola “Hate speech, Il lato oscuro del linguaggio”.

L’autrice, Claudia Bianchi, docente di Filosofia del linguaggio, spiega che l’uso di epiteti o parole d’odio “non è solo un sintomo di razzismo, misoginia e omofobia di chi parla, ma anche un sostegno attivo a razzismo, misoginia e omofobia”. Partendo da questa funzione “propagandistica” del linguaggio d’odio, è facile arrivare alla politica.

Se pensiamo alla legge Zan, per esempio, comprendiamo immediatamente le posizioni in campo. Da una parte, c’è chi vuole esplicitare le discriminazioni e la violenza basate sul genere o sugli orientamenti sessuali, per renderle riconoscibili come tali e ricondurle nell’alveo di ciò che è incivile e inaccettabile. Mentre dall’altra parte si difende l’esistente e con esso, inevitabilmente, lo spazio di agibilità sociale dell’omofobia.

Basta “dare un nome a un problema”, spiega Bianchi, “per compiere il primo passo per affrontarlo e combatterlo”. È già successo con il termine femminicidio, che ha contribuito a delineare un fenomeno con caratteristiche proprie ricorrenti, come il processo di escalation delle violenze e il ruolo dei partner o ex partner. E anche in quel caso, le critiche si sono concentrate sul linguaggio e sulla contestazione della parola femminicidio.

Con l’omofobia accade lo stesso. Non a caso, lo scontro è feroce sulla previsione del disegno di legge Zan di parlarne nelle scuole, che significa dare cittadinanza a concetti come omofobia, transfobia eccetera, che evidentemente molti considerano come un attentato alla cultura dominante.

Il secondo libro serve proprio a capire e riconoscere le manifestazioni estreme della cultura dominante nella società, nella politica e sui mezzi di comunicazione vecchi e nuovi: si intitola “Hate speech. L’odio nel discorso pubblico. Politica, media, società” ed è curato da Raffaella Petrilli, che insegna Teoria e filosofia dei linguaggi all’Università della Tuscia.

Si tratta di un’indagine che ricostruisce la natura dei discorsi d’odio e la loro valenza come strumenti di identificazione e comunicazione pubblica. Mostra l’uso politico dell’hate speech e la sua dissimulazione attraverso codici che non riusciremmo a riconoscere senza una guida. Spiega i sistemi di manipolazione linguistica utilizzati per inquinare i resoconti giornalistici o nella propaganda dei gruppi di estrema destra.

Un utile contributo per un Piano di ripresa e resilienza della propria coscienza politica.

 

Claudia Bianchi, “Hate speech. Il lato oscuro del linguaggio”, Laterza, 2021

Raffaella Perilli, “Hate speech. L’odio nel discorso pubblico. Politica, media, società”, Round Robin Editrice, 2020.

 

Questo articolo è stato realizzato dalla redazione di STAMPA FINANZIARIA.IT in collaborazione con SixMemos.

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