A Verona, un dialogo tra Occidente, Iran e Afghanistan, per condividere le lotte per i diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+ A Verona, un dialogo tra Occidente, Iran e Afghanistan, per condividere le lotte per i diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+

Diritti negati: «La laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi» 

A Verona, un dialogo tra Occidente, Iran e Afghanistan, per condividere le lotte per i diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+.

C’è un filo che unisce vicende come quella di Rayaneh Jabbari, giustiziata per aver reagito a un tentativo di stupro, ai tanti percorsi dell’attivismo per i diritti umani. È il filo tessuto da chi lotta per la condizione femminile in quanto forma di responsabilità verso le generazioni future. A raccontare quella lotta è stato il convegno «Donna Vita Libertà – I diritti negati delle donne in Iran e Afghanistan» organizzato a Verona dall’associazione Vega (Veronesi giuriste associate).

Per Sara Gini, presidente di Vega, «la testimonianza di donne coraggiose diventa il grido di tutte le donne del mondo» e deve ricordare come «la protezione dei diritti sia quanto mai necessaria anche laddove quei diritti sono dati per acquisiti». Ecco perché parlare di Iran e Afghanistan, dove la condizione femminile è al di sotto della soglia minima, permette di «fare informazione e costruire reti che garantiscano a livello locale e globale l’esercizio di una democrazia reale, in grado di trasformare i rapporti e affrontare i conflitti». 

Le condanne senza processo in Iran

Di Iran ha parlato Hana Namdari, giornalista di Indipendent Persian e attivista per i diritti umani, che si è occupata spesso delle condanne senza processo: «È un tema di cui è necessario parlare. Oggi in Iran i diritti umani sono negati, soprattutto quelli delle donne. Non è pensabile che un giovane sia impiccato soltanto perché ha partecipato a una manifestazione, il tutto senza il riconoscimento di alcun diritto, inclusa la possibilità di disporre di un avvocato. E bisogna domandarsi come siamo arrivati a questo, visto che negli anni ‘60 e ‘70 la situazione era completamente diversa: ora nel Paese c’è una generazione che va in piazza, che combatte per diritti e libertà, ma che nelle proteste affronta costantemente la repressione da parte delle forze dell’ordine».

Tiziana Ciavardini, antropologa culturale, giornalista e scrittrice, ha citato i casi di Rayaneh Jabbari, giustiziata per aver reagito a un tentativo di stupro, e di Romina Ashrafi, vittima di un “delitto d’onore” per mano del padre: due esempi della violenza sistemica subita dalle donne iraniane. «Rayaneh è una donna che vede la legge del proprio Paese schierarsi dalla parte del carnefice – riflette Ciavardini – mentre con Romina ci troviamo di fronte a una famiglia che tutela il proprio onore uccidendo la figlia responsabile di voler lasciare casa per andare a vivere con un ragazzo più grande di lei: tali tragedie sono solo l’eco di una sofferenza più profonda, di un sistema che nega alle donne la loro umanità. Ma nel cuore di questa oscurità la speranza non muore e le donne iraniane si ergono, con la forza della loro determinazione, per rivendicare libertà e uguaglianza, dalle strade alle piazze virtuali, per un grido la cui potenza non conosce confini». Come sottolineato da Carlotta Rossato, dottorata in Human Rights, Society and Multi-level Governance al Centro Diritti umani Antonio Papisca dell’Università di Padova, «il sistema penale iraniano registra l’assenza del principio di determinatezza della fattispecie» mentre «il sistema giudiziario vede un forte arbitrio del giudice nell’interpretazione della legge». 

Occidente complice del regime

Mohsen Hamzehian, medico dell’Associazione per la democrazia in Iran, è un altro testimone delle lotte sociali e politiche per diritti umani e civili e ha parlato dei «venti di guerra internazionali come dinamica favorevole al regime iraniano, che può concentrare le sue forze contro il movimento Donna Vita Libertà. La condizione generale dell’Iran, peraltro, la cui elevata popolazione è produttrice di materie prime a basso costo per il mercato mondiale, incarna una condanna all’arretratezza a causa dei bassi salari, della mancanza di libertà sindacali, dei bassi consumi, del mercato nazionale fragile, dei sistemi sociali impoveriti e ricattabili e del non riconoscimento dei partiti politici. La presenza così forte della questione femminile, nei movimenti più recenti in Iran, evidenzia il bisogno di rottura con i principi del regime, come per esempio la legge sulla castità e sull’obbligo dell’hejab promossa poco più di un anno fa». In tutto ciò, l’Occidente appare «complice della sopravvivenza del regime attuale, perché garantisce reti di interessi rispetto alla prospettiva, per la politica dei paesi ricchi, di avere un Iran più evoluto».

Dal 2021 in Afghanistan vige la Sharia

Sull’Afghanistan è intervenuta Daniela Meneghini, docente di Lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia e traduttrice del libro “Fuorché il silenzio. Trentasei voci di donne afghane” (Jouvance 2024), di M. Asef Soltanzadeh, intellettuale afghano trapiantato in Danimarca. «Con le leggi emanate nel 2021 dai talebani alla ripresa del potere – spiega Meneghini – è iniziata anche la rivolta di donne scese nello spazio pubblico per denunciare l’inaccettabilità delle nuove norme e il rifiuto della mentalità misogina dominante: un gesto di coraggio straordinario, visti i rischi, compiuto pensando alle loro figlie e ai loro figli». 

Una realtà raccontata anche da Monira Najibzada, donna di origini afghane, laureata in Giurisprudenza con master in Criminal law and Criminal science all’Università di Kabul, già Procuratrice generale all’Attorney General’s office of Afghanistan e attualmente impegnata in Italia con Ags, l’Associazione giovanile salesiana: «Il sistema giudiziario dell’Afghanistan è cambiato varie volte negli ultimi 20 anni. Dal ritorno dei talebani, nel 2021, il sistema si basa sulla Sharia, la legge sacra dell’Islam, e su regole frutto di influenze religiose. Ogni minima libertà è stata spazzata via».

Diritti, rifugi e scuole segrete

Barbara Porta, avvocata del Foro di Torino, presidente del Comitato Human Rights del Consiglio degli Ordini Forensi d’Europa, si è concentrata sul contrasto fra i diritti negati delle donne in Afghanistan e gli obblighi fissati dalle norme internazionali. Porta ha ripercorso il rapporto presentato nell’aprile 2024 alle Nazioni Unite dall’Osservatorio internazionale avvocati in pericolo (Oiad): «Il rapporto fotografa la terribile situazione dei diritti umani per tutti e per le donne e l’avvocatura in particolare in Afghanistan. A livello europeo, la sentenza della Corte di Giustizia Ue dell’ottobre 2024 stabilisce un importante precedente giuridico in materia di riconoscimento della protezione internazionale per le donne afghane».

Graziella Mascheroni, presidente Coordinamento italiano di sostegno alle donne afghane (Cisda), ha parlato dei 25 anni di collaborazione con Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, e altre associazioni di donne afghane, laiche e femministe: «Il nostro obiettivo è sostenere i loro progetti di alfabetizzazione e scuole segrete, rifugi per donne maltrattate, piccole cliniche, ma soprattutto favorire la consapevolezza delle donne sui loro diritti, base di ogni cambiamento. Il regime talebano corrisponde a un ritorno all’età della pietra: le donne non possono frequentare le scuole né le università, sono stati chiusi i saloni di bellezza e succede pure che le finestre di casa che danno sulla strada vengano murate perché la donna non sia vista dai passanti». 

Soppressione dei diritti e ricerca di legittimazione del regime talebano

Proprio da Cisda è partita lo scorso dicembre la campagna «Stop fondamentalismi – Stop Apartheid di genere», con cui si chiede che i talebani siano giudicati dai tribunali internazionali. «Non perché una condanna sarebbe sufficiente a farli cambiare – dice Mascheroni –  ma perché sarebbe un ostacolo alla politica di riconoscimento del loro governo, che tutti gli Stati stanno portando avanti in modo esplicito o mascherato. Il regime fondamentalista dei talebani è responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui Lgbtqi+. L’Afghanistan rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere” anche se non è il solo, perché l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque, anche nel mondo occidentale: la promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e anti-fondamentaliste anche in Afghanistan».

L’evento si è svolto al Palazzo Scaligero di Verona, all’interno delle manifestazioni per la Festa internazionale della donna 2025, grazie all’associazione Vega (Veronesi giuriste associate) in collaborazione con Telefono Rosa, la Commissione pari opportunità della Provincia di Verona, l’Assessorato per la parità di genere del Comune di Verona e la Commissione Diritti umani dell’Ordine degli Avvocati di Verona.