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I profitti di Nvidia non salveranno l’economia Usa

“Per Novelli (Lemanik), i profitti di Nvidia non sono sufficienti salvare l’economia Usa dalla crisi del sistema bancario e non eviteranno una probabile recessione…”
Di Maurizio Novelli, gestore del fondo Lemanik Global Strategy
Gli Stati Uniti hanno deciso di percorrere fino in fondo la strada dell’instabilità finanziaria. Ormai la scommessa del sistema è passata da sette titoli alla totale concentrazione su un solo titolo. Questo non è mai accaduto nella storia dell’economia, ma conferma sempre più uno scenario speculativo iper concentrato che ormai fa paura anche a coloro che sono dei permabull (investitori rialzisti).
Tutti sanno che i profitti di Nvidia non sono sufficienti salvare l’economia americana dalla crisi del sistema bancario e non eviteranno una probabile recessione. Una sola società non può modificare il quadro fondamentale dell’intera economia, sebbene possa essere utilizzata nel breve termine, come una grande fonte di distrazione dai problemi strutturali sempre più evidenti. L’analisi dei bilanci delle banche americane ci dice che è già iniziata una crisi finanziaria, esattamente come nel marzo del 2007, quando i bilanci delle banche dicevano la stessa identica cosa, anche se Wall Street ha cercato di nascondere fino alla fine la realtà. La grande operazione mediatica concentrata su un’unica società (Nvidia) evidenzia la debolezza del sistema e non la sua forza. In una casa dove i muri portanti vanno in pezzi, festeggiamo l’inizio di una nuova serie televisiva che ci terrà impegnati sul divano per qualche serata senza guardare le vaste crepe sulle pareti.
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L’economia Usa è già in recessione

I problemi dell’economia Usa

Il Ministero del Tesoro e la Fed stanno facendo i conti delle perdite che circolano nelle banche sui prestiti al Commercial Real Estate, prestiti che ammontano a 4,5 trilioni o il 20% del Pil. Un anno fa erano emerse perdite sul portafoglio titoli delle banche per circa 850 mld di dollari (pari al 30% del Tier 1). Alcune banche sono fallite, le altre hanno immediatamente immobilizzato il portafoglio per non contabilizzare le perdite e non fallire. Oggi circa 4200 banche americane evidenziano una esposizione media del 60% del portafoglio prestiti al solo settore del CRE. Il range di esposizione varia da un minimo del 30% a un massimo dell’80%. Il rischio ponderato sul Tier 1 è pari a circa il 120%. Ma nulla sappiamo delle dinamiche di rischio che esistono anche su altri segmenti del portafoglio crediti, in particolare Leverage Loans, credito al consumo e prestiti al Private Equity, che evidenziano un aumento delle insolvenze ormai da mesi. Leggendo i bilanci delle banche statunitensi ci si accorge che ormai l’unica cosa che viene contabilizzata è solo il margine d’interesse e le commissioni, mentre le altre poste di bilancio (loans e investimenti) sono valutate al “fair value” o al prezzo di carico. Quando una banca ha un problema sul portafoglio crediti vuol dire che ha prestato soldi ai clienti sbagliati, ma quando 4200 banche hanno un problema sul portafoglio crediti vuol dire che l’intero sistema a cui hanno prestato denaro è in crisi. A questo punto, indipendentemente da quello che la Fed deciderà di fare sui tassi, l’economia è destinata a subire un credit crunch e poi una recessione. Occorre sottolineare che il sistema non è nella condizione di reggere una recessione. Lo stock di debito speculativo (10 trilioni di dollari) accumulato in 14 anni di tassi a zero è già ora in crisi. In caso di recessione i tassi di default procurerebbero un contagio incontenibile. Per evitare l’inevitabile possiamo anche manipolare i dati macro come si fa in Cina e non contabilizzare le perdite su bilanci bancari. Ma anche facendo così l’economia cinese non è riuscita a evitare la crisi, sebbene abbia un sistema finanziario “chiuso” e teoricamente controllabile.  Per rimandare un “destino già segnato” gli Stati Uniti spingono sull’intervento pubblico a oltranza e sulle linee di credito aperte dalla Fed per sostenere le banche in difficoltà. Questo vuol dire che il sistema è ormai in un costante bailout giornaliero. Quanto può durare questa situazione nessuno lo sa ma è evidente che non può reggere a lungo. L’andamento della borsa, sostenuta da un solo titolo, non può modificare purtroppo la “cartella clinica” del paziente in coma. La strategia di tamponamento, l’unica per ora possibile, proseguirà fino alle elezioni Usa, anche se non sappiamo se da qui a novembre l’economia reggerà. C’è una elevata probabilità che l’amministrazione Biden possa affrontare le elezioni con un’economia in recessione, in pre-recessione e con una crisi finanziaria che bussa alla porta. D’altronde Cina, Europa, UK e Giappone sono già dove sarebbero oggi gli Stati Uniti senza la spesa pubblica fuori controllo per gli interventi di sostegno al sistema fallito. È quindi probabile che la Fed sia costretta a ridurre i tassi prima delle elezioni, ma poiché la discesa dell’inflazione mostra una certa difficoltà, la riduzione arriverà tardiva, peggiorando la situazione già critica nello Shadow Banking System e nel credito speculativo in circolazione.
Il credit crunch provocato dalle difficoltà del sistema bancario non farà che accentuare i problemi sul credito all’economia. Il secondo trimestre dell’anno si preannuncia piuttosto critico e richiederà ulteriori massicci interventi pubblici e ulteriori iniezioni di liquidità da parte della Fed per sostenere le banche e l’economia. Dopo l’avvio della restrizione del credito all’economia procurata dal sistema finanziario in difficoltà (Banche e Shadow Banking), già in corso da sei mesi, si assisterà ora al cedimento dei consumi interni. Lo stock di risparmio disponibile, anche quello frutto di generose erogazioni fiscali, è finito. La tenuta dei consumi interni finanziata dalle erogazioni pubbliche post Covid è giunta al termine e non è ripetibile. Stranamente, l’aumento dei default sul credito al consumo e la “sorprendente” caduta delle vendite al dettaglio del mese scorso coincidono con l’esaurimento della scorta di risparmio disponibile.

Mancata comunicazione delle insolvenze    

Per quanto riguarda il credito al consumo, è interessante notare quello che emerge dallo studio pubblicato da BankRegData, uno dei Think Tank leaders specializzati nell’analisi del sistema bancario USA. La pubblicazione, intitolata The Artificial Consumer, descrive che dalla primavera del 2020 alla fine del 2022, non sono state contabilizzate perdite sulle carte di credito e prestiti auto per oltre 260 mld di Dollari. Questo meccanismo di “mancata comunicazione delle insolvenze” ha permesso di mantenere artificialmente alto il rating dei consumatori insolventi, ha quindi inficiato il rating delle cartolarizzazioni di ABS e ha procurato un’anomala compressione delle insolvenze. Viene subito da pensare alla pratica utilizzata nel 2007 sui MBS, dove le insolvenze sui mutui non venivano rilevate per non interrompere il meccanismo di cartolarizzazione di crediti in deterioramento. Tutti sappiamo come poi sono andate le cose. È paradossale che a distanza di 15 anni la prassi sia ancora ripetibile. L’importo di 260 mld di dollari si riferisce solo a prestiti tramite carte di credito e prestiti auto, che a fine 2022 ammontavano complessivamente a circa 3 trilioni di dollari, evidenziando quindi, già allora, un tasso di insolvenza dell’8% circa contro una percentuale ufficialmente dichiarata dell’1%. Se qualcuno continua a credere che la forza anomala dell’economia americana sia basata su fondamentali inossidabili è meglio che non si faccia troppe domande. Gli Stati Uniti sono già entrati in una crisi finanziaria. A questo punto, i contendenti alle elezioni di Novembre, faranno a gara per promettere ulteriori politiche fiscali espansive per cercare di risollevare il sistema. Mentre nei prossimi mesi potremmo assistere ad un rialzo dei Treasuries per il cedimento dell’economia, per la caduta dei consumi, e per aspettative di ribasso dei tassi, c’è il rischio che tale recupero dei mercati obbligazionari possa finire in concomitanza con l’arrivo delle elezioni. Escludendo per il momento uno scenario di crisi finanziaria innescata dai problemi già evidenziati, è altamente probabile che, davanti alle difficoltà di crescita, qualsiasi amministrazione vincerà le elezioni, cercherà di reflazionare l’economia. È quindi certo che gli Stati Uniti avvieranno una ulteriore espansione del debito pubblico che procurerà un rialzo delle aspettative d’inflazione e dei tassi già a partire dalla seconda metà del 2024, quando però la Fed avrà probabilmente già iniziato a ridurre i tassi. Le implicazioni per gli asset finanziari saranno significative. La miscela esplosiva determinata da aspettative di politiche fiscali ulteriormente espansive, mentre la Fed procede a far scendere i tassi, avrà decise ripercussioni sui mercati obbligazionari. I bond riprenderanno a scendere come nel 2022 e la Fed si ritroverà di nuovo “dietro la curva”, dato che non abbiamo certo banchieri centrali che possono definirsi dei falchi ortodossi nella lotta all’inflazione. L’aumento dei tassi procurato dalle politiche fiscali reflazionistiche e la strategia di “rimanere dietro la curva”, per non contrastare politiche di rilancio della crescita, procureranno ulteriori danni al credito speculativo in una economia altamente a leva. Le politiche reflattive inizieranno a incidere in modo significativo sulla tenuta del dollaro. Per difendere dall’inflazione attesa gli investitori sui bond e sul dollaro si dovrebbe avviare subito politiche monetarie restrittive, ma la situazione macro del momento non sarà nella condizione di reggerle, spingendo la Fed a rimanere “dietro la curva”. Bond e dollaro verranno venduti dagli investitori internazionali, mentre i tassi di insolvenza sul credito speculativo saliranno ulteriormente, procurando a quel punto una crisi finanziaria. L’economia americana ha sfruttato tutti i margini di manovra possibili per rimandare la crisi ma l’ipotesi di una collisione tra politica fiscale e politica monetaria è ora altamente probabile. Gli Stati Uniti non hanno mai fatto politiche fiscali di riduzione del debito, piuttosto hanno sempre scelto l’inflazione. Questo scenario potrebbe essere sovvertito dal fatto che la crisi finanziaria già iniziata, ed evidenziata dai bilanci bancari, scappi di mano prima delle elezioni. In questo caso, il rialzo dei bond governativi non avrebbe interruzioni e sarebbe rafforzato da elevatissimi rischi di Balance Sheet Recession.

Come posizionarsi di fronte a tutto questo?

A questo punto analizziamo come affrontare questo scenario di inevitabile stress a cui verrà sottoposto il sistema finanziario. La nostra asset allocation si sta modificando in modo da poter sfruttare elevata volatilità prospettica sui tassi, ribilanciando le posizioni short equity per dare maggiore spazio a strategie long short su tassi e valute. Il budget di rischio punta a una struttura di portafoglio più diversificata tra le asset class, dato che entreremo in un contesto di crisi ed elevata volatilità. Pur rimanendo piuttosto negativi sulle prospettive degli indici azionari, nonostante Nvidia, abbiamo preferito spostare le posizioni short dall’indice del mercato (SPX o Eurostoxx) al settore bancario, sia tramite acquisto di opzioni put su banche US che tramite short sull’indice del settore bancario UE. Qualunque possano essere le dinamiche sulla bolla speculativa di alcuni titoli ad elevato peso sull’indice SPX, è abbastanza certo che il settore bancario americano sarà sottoposto a una lunga crisi. Le insolvenze sul Commercial Real Estate hanno iniziato a emergere anche in Europa e la congiuntura economica globale non lascia spazio a un miglioramento della qualità del credito nei bilanci delle banche, che costituiscono ora l’anello debole più evidente della crisi finanziaria in corso negli Stati Uniti. Quindi l’equity rimane uno short (-30%) su un comparto specifico che mostra fondamentali in evidente cedimento. Siamo al momento positivi sulle prospettive di rialzo per il Bund e per il Treasury decennali, dove siamo long del 30%. Caduta dei consumi e l’aumento delle insolvenze sul credito al consumo, tenute nascoste per molto tempo, sono un indicatore inequivocabile di cedimento dell’economia. Il rallentamento dell’economia Usa procurerà temporaneamente un ribasso dei tassi a lunga scadenza, ma come ho accennato in precedenza, poiché tale scenario innescherà il rischio di una recessione, le politiche monetarie e fiscali necessarie ad evitarla procureranno elevato disordine sui tassi. Ritengo che la volatilità sui tassi d’interesse sulla parte lunga della curva sarà molto più elevata del 2022 e si trasmetterà a tutti i segmenti del mercato finanziario (Bonds, Equity, FX e Commodities). L’attuale posizione long sui bond è compatibile con uno scenario di rischio recessivo, ma è abbastanza scontato che gli Stati Uniti sceglieranno l’inflazione per cercare di contrastare la caduta in recessione. Le posizioni attualmente long sono quindi disegnate su un orizzonte temporale di sei mesi e predisposte ad una inversione della posizione su aspettative di politiche reflazionistiche dopo le elezioni Usa. L’Oro rimane predisposto a un bull market significativo di lungo periodo. Il cedimento dell’economia Usa, i rischi latenti di crisi finanziaria già in corso, i tentativi di contrastare tali scenari con ulteriori politiche reflazionistiche, sono tutti fattori positivi per l’Oro, dove attualmente abbiamo una posizione long del 7% destinata ad aumentare sulle fasi di debolezza. Poiché, come già accennato, gli Stati Uniti hanno sempre scelto l’inflazione rispetto a un rischio di recessione (sebbene poi le recessioni sono sempre e comunque arrivate), le ripercussioni sul mercato dei cambi saranno significative. Gli Stati Uniti cercheranno di contrastare la recessione con politiche reflazionistiche e la Fed rimarrà dietro la curva. I tassi reali attesi sul dollaro saranno destinati quindi a scendere e così anche la divisa Usa. JPY è particolarmente esposto ad apprezzamento, non perché BOJ intende alzare i tassi, ma perché esiste una colossale posizione di carry trade da parte di investitori giapponesi che in questi anni hanno venduto JPY per acquistare asset in dollari. Anche gli investitori europei sono tutti long sul dollaro, come tutto il mondo d’altronde. L’attuale sopravalutazione del dollaro è strettamente correlata alla sopravalutazione degli asset finanziari americani, esattamente come nel 1928 e nel 1999, quando i flussi di capitale dall’estero alimentavano le bolle su credito, equity e Dollaro.
Mi aspetto dunque che la strategia Usa di dover scegliere tra recessione e crisi finanziaria o inflazione e crisi di bond e dollaro, sarà certamente per la seconda. Questa soluzione ci porterà comunque a un totale disordine finanziario, salvo che la crisi finanziaria che emerge già ora platealmente nei bilanci bancari non scappi di mano già nei prossimi mesi e anticipi gli accadimenti.

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