Il Vinitaly è anche un evento sociale, da rilanciare sui social media: qui alcune immagini tratte dal profilo Facebook del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. Il Vinitaly è anche un evento sociale, da rilanciare sui social media: qui alcune immagini tratte dal profilo Facebook del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia.

Il vino italiano in mezzo al guado dei dazi

In un settore in cui programmazione e posizionamento di mercato richiedono tempi lunghi, l’incertezza generata dai dazi Usa condiziona pesantemente le strategie delle aziende. Le voci dei piccoli e medi produttori al Vinitaly.

Di Stefania Tessari e Camilla Ferrarese

La 57ma edizione del Vinitaly si è chiusa da un mese: ancora un successo, con oltre 100 mila visitatori provenienti da più di 140 Paesi, e sempre con il fiato sospeso per i dazi sulle importazioni di beni europei, incluso il vino, annunciati e poi sospesi (fino al prossimo 14 luglio) dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Ridurre i margini per mantenere i prezzi stabili

Per evitare questo scenario, molti produttori e distributori stanno considerando strategie per condividere l’impatto economico dei dazi lungo tutta la filiera. L’obiettivo è ridurre i margini, sia da parte delle cantine che degli importatori, pur di mantenere stabili i prezzi sul mercato americano. Tuttavia, questa strategia non è priva di conseguenze: per le imprese italiane più esposte verso gli Usa – che rappresentano spesso oltre il 30% del loro export – il calo dei margini potrebbe compromettere seriamente i bilanci e obbligare a diversificare verso nuovi mercati internazionali.

Nei padiglioni della fiera l’atmosfera era tesa ma reattiva. Le testimonianze raccolte tra i produttori raccontano di approcci diversi: c’è chi guarda ai nuovi dazi con preoccupazione concreta, chi li considera una sfida di breve periodo da superare con pragmatismo e chi ancora spera che le trattative diplomatiche in corso portino a una sospensione delle misure o addirittura alla loro eliminazione entro l’estate.

L’annuncio dei dazi era giunto nei giorni immediatamente precedenti alla fiera, suscitando notevole preoccupazione tra le cantine italiane, storicamente ben radicate nel mercato statunitense. Durante i quattro giorni di esposizione a Verona, i produttori italiani hanno avuto l’opportunità di confrontarsi direttamente con gli importatori americani, alla ricerca di soluzioni condivise per affrontare questa nuova sfida commerciale.

Il rischio principale è che l’intero costo dei dazi – si parla di tariffe aggiuntive del 20% – venga trasferito interamente sui consumatori finali. Una scelta che potrebbe compromettere la competitività del vino italiano negli USA, favorendo prodotti di altri Paesi extra-UE non colpiti da tali misure protezionistiche. Alcuni operatori temono addirittura l’uscita dal mercato americano di alcune cantine, soprattutto quelle medio-piccole, incapaci di sostenere l’aumento dei costi senza perdere clienti.

Adattarsi o cambiare rotta

L’incertezza resta però la preoccupazione ricorrente tra gli operatori. Le decisioni americane sono state rapide e unilaterali e a oggi non ci sono ancora punti fermi su come evolverà la situazione nei prossimi mesi. Una instabilità che condiziona pesantemente le strategie delle aziende vitivinicole, che si trovano in difficoltà nel programmare investimenti, definire listini e pianificare campagne commerciali.

In un settore in cui la programmazione e il posizionamento di mercato richiedono tempi lunghi, la mancanza di certezze è forse il danno più subdolo. Se le trattative falliranno e i dazi entreranno pienamente in vigore a seguito alla pausa di 90 giorni durante la quale le tariffe reciproche sono fissate al 10%, il sistema vino italiano dovrà affrontare un bivio: adattarsi, ricontrattare e resistere, oppure cambiare rotta.

I dialetti del vino e il Chianti Classico di Istine

Se il contesto macroeconomico appare grigio per tutti, tra i padiglioni veronesi spiccava l’energia sorprendente dei piccoli e medi produttori: vignaioli che vivono la terra e trasformano le sfide climatiche, economiche e politiche in motivazione. Nonostante tutto. Tra questi, abbiamo incontrato diverse realtà uniche, accomunate da una visione comune: produrre con consapevolezza, integrità e lungimiranza.

Nel cuore di Radda in Chianti, Istine è un mosaico di vigneti su suoli diversi, ciascuno vinificato separatamente, ciascuno con un carattere distintivo. La verticalità minerale del Casanova, la rotondità del Cavarchione, la profondità de Le Vigne Riserva 2021 creano una collezione di sfumature che non nasce per stupire, ma per raccontare: «Ogni vendemmia è una nuova lezione. C’è sempre una sfida da affrontare, un imprevisto da gestire, ma anche una possibilità di evolvere. L’ottimismo è fondamentale», racconta Angela Fronti, figura di riferimento del nuovo rinascimento del Chianti Classico. Istine non si ferma qui: gin dal bosco, vermouth aromatico, Merlot in purezza (“550”) e un progetto collettivo – “53017”, come il codice di avviamento postale di Radda – che unisce 25 aziende in un unico blend, cui ognuna contribuisce donando 27 litri del miglior Sangiovese. Un gesto di comunità che diventa atto culturale.

L’export non è immune ai venti politici: «Alcuni importatori statunitensi iniziano a chiedere sconti per cautelarsi contro i possibili nuovi dazi. Ma noi restiamo saldi». Il 50% delle bottiglie (su un totale di 90 mila annue) vola fuori Italia, con gli Usa che rappresentano circa il 30% dell’export. Scelte coraggiose in tempi di incertezza.

Bruna, il Pigato che sa di pietra, sale e memoria

In Liguria, tra i muretti a secco e il profilo spezzato della Riviera, la famiglia Bruna produce Pigato dal 1970. Il termine “Majé”, che dà il nome alla loro etichetta più rappresentativa, indica proprio quei muri in pietra che sorreggono le terrazze. Ogni sorso è una stratificazione: geologica, storica, emotiva.

Cantina biologica dal 2010 e certificata dal 2022, Bruna vinifica su soli 7 ettari e mezzo, dove ogni filare è una conquista contro la gravità. I vini – dritti, salini, aromatici, come il Majé 2024 o il Rossese in annata – si sposano perfettamente con il mare. Il “Le Russe Ghine”, ricavato da vigneti un tempo appartenenti alla curia di Albenga, è testimone di un’eredità antica, mentre “U Baccan” – il patriarca, il capofamiglia – è un omaggio ai valori fondanti.

Il vino del Monte Cimo che respira libertà

Monte Cimo è un piccolo altopiano vocato al silenzio e alla qualità. Siamo a Spiazzi (Verona), tra i 900 e i 1000 metri, in Veneto, dove la vite si fa testarda. L’azienda nasce nel 2017, ma ha già idee chiarissime: varietà resistenti (Solaris e Muscaris), approccio interventista al minimo, 18 mila bottiglie all’anno e un territorio così sano da non conoscere muffe o malattie. Lo “Spontaneo 2023” (Solaris e Muscaris) è floreale e salino, mentre il “954” è l’essenza pura della quota, intenso e persistente.

L’obiettivo? Crescere fino a 30 mila bottiglie e consolidare un’identità fatta di aria e luce. Attualmente il 90% viene venduto in Italia, ma iniziano ad affacciarsi al Nord Europa e agli Stati Uniti, quindi il tema dazi è meno sentito. Prezzo medio al pubblico: 28 euro, per vini che raccontano di passione e libertà.

Paltrinieri, lambrusco con un’identità precisa

Il Lambrusco è vino popolare, ma Paltrinieri gli dà un’identità precisa. In particolare il Sorbara, varietà difficile (autoimpollinazione scarsa, acini piccoli, acidità altissima) che dà vini chiari, freschissimi, perfetti per il metodo classico.

Con 20 ettari vitati e 180 mila bottiglie l’anno, la cantina di Sorbara (Modena) esporta metà della produzione. Ma anche qui il mercato americano è in stallo: «Ci chiedono sconti, gli ordini si sono bloccati». Tuttavia la nuova generazione non è spaventata e guarda avanti. Le etichette sono precise: “Radice” è Sorbara in purezza, “Piria” è il Lambrusco classico, “Grosso” è Metodo classico. Il tutto tenuto insieme da una parola: cognome.

Valdoca, nel cuore del Prosecco

Ogni Vinitaly porta con sé un po’ di movimento e per Valdoca avere gli anticorpi giusti è fondamentale. Rispetto alla quota tipica di esportazione delle aziende di Prosecco di Conegliano Valdobbiadene, che è del 20%, Valdoca esporta solo il 5% e si concentra principalmente sul mercato nazionale ed europeo. «La nostra preoccupazione principale è che emergano succedanei con Italian sounding, creando distorsioni di mercato», spiega Stefano Gava di Valdoca, «la sovraesposizione ci rende vulnerabili alle fake news».

Valdoca è al sesto anno del suo report sulla sostenibilità, un impegno che non si limita all’ambiente, ma abbraccia anche gli aspetti sociali e di governance. «È fondamentale mantenere un equilibrio tra i tre pilastri della sostenibilità», sottolinea Gava, evidenziando l’importanza di preservare l’economia locale attraverso una forte cooperazione territoriale. La sfida principale per Valdoca è attrarre e comprendere i cambiamenti nei trend di consumo, un compito che richiede attenzione costante e capacità di adattamento.

Un’Italia che non cede alla semplificazione

In un contesto internazionale segnato da instabilità geopolitica – guerre, dazi, cambiamento climatico – e da una crescente richiesta di autenticità da parte dei consumatori, le aziende incontrate a Vinitaly 2025 dimostrano che il futuro del vino non è nell’omologazione, ma nella forza identitaria di ogni realtà. Che sia un rosso di Radda, un bianco di quota, un Pigato sapido, un Lambrusco in metodo classico o un Prosecco che resiste alle mode, ciò che emerge è una parola chiave: coerenza. E ogni calice, ogni parola scambiata a Verona, è una promessa di continuità.

Nella foto, alcune immagini scattate al Vinitaly, tratte dal profilo Facebook del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia.