Quei fumetti giganti li riconoscono tutti, ma sono pochissimi coloro che li associano a un autore preciso. E’ il grande successo e il grande rammarico di Roy Lichtenstein: “In quasi mezzo secolo di carriera avrò dipinto fumetti e puntini per soli due anni. Possibile che nessuno si sia mai accorto che ho fatto altro?”. E qui siamo all’ordinaria funzione divulgativa delle mostre d’arte. Quella dedicata a Roy Lichtenstein, quasi 100 opere al Mudec di Milano fino all’8 settembre 2019, offre qualcosa in più. Sicuramente per chi ha vissuto negli anni in cui la pop art ha imposto una lettura grafica della realtà: Andy Warhol è morto nel 1987, Lichtenstein nel ’97. Ma soprattutto per la generazione Instagram, tra cui c’è sicuramente chi ha bussato al cellulare di un amico usando l’immagine di una porta con la scritta “KNOCK KNOCK” (Knock Knock, 1975) o chi ha postato una ragazza in lacrime (primissimo piano, capelli gialli, la pelle del viso resa con i pallini rossi: Crying girl, 1963) pensando che fosse l’ingrandimento di un fumetto d’altri tempi. Ed è proprio così. Oppure no. E’ il gioco di Magritte quando dipinge una pipa con la scritta “Ceci n’est pas un pipe”. “I miei quadri sono diversi dai fumetti”, recita l’ottima audioguida della mostra riportando le parole di Lichtenstein: “io sposto i soggetti. I modi di vedere e di comporre l’immagine sono diversi e hanno fini diversi”. Addentrarsi nella realtà passando per il prototipo dell’irrealtà, come sono le immagini dei fumetti, è uno dei motivi per apprezzare la mostra.
Un altro può essere naturalmente quello della caccia alle citazioni, in alcuni casi volute e dichiarate (Still life with Picasso, 1973), in altri ipotizzabili soltanto nell’occhio di chi guarda (The heavier than air machine, 1953, rimanda al futurismo?). Poi c’è documentata la società degli anni Sessanta-Settanta, che è facile rapportare alla cronaca dei giorni nostri. Cosa rappresenta, per esempio, quel prototipo di donna casalinga, ora sorridente, ora triste, ora al telefono? La bidimensionalità del disegno ne esalta la funzione ancillare o stigmatizza lo schiacciamento della donna in un ruolo sociale stretto e delimitato, che ancora oggi si fatica a rompere, come dimostra il movimento MeToo? E la rappresentazione quasi cubista della pace attraverso la chimica (Peace through chemistry, 1970) è una bandiera delle spensierate virtù del progresso o una premonizione sul prezzo da pagare alla tecnica, contro cui si batte la nostra Greta?
La mostra si apre con l’iconica Crying girl e si chiude con i sorprendenti Landscapes realizzati negli anni ’90, in cui i puntini che erano stati utilizzati per appiattire le immagini vengono rimodellati per tornare a dare profondità al dipinto. Lichtenstein diceva di avere un obiettivo in fondo modesto: “Rendere l’arte dei libri leggermente migliore”. Che ci sia riuscito o meno è soggettivo. E mentre ci pensiamo, vale certamente la pena di misurarsi con una enorme pistola puntata contro di noi “che l’ingrandimento rende irreale. Ma anche più reale” (Pistol, 1968).